Il fatto che sulle monete del da Vignate il nome di Lodi segua quello di Piacenza ha portato gli studiosi a ritenere la città emiliana l'effettiva zecca di produzione delle stesse(22). Questa ipotesi è confortata da un'indicazione contenuta nella pratica di mercatura di Giovanni di Antonio da Uzzano.
Scrive infatti l'Uzzano, verso la fine di una lista di Leghe e Monete d'Ariento saggiate in Firenze, che Ambrogiani si battono a Piagenza tengono per libbra oncie 6 den. 7 e mezzo (circa 526%o) (23). L'indicazione del Camaiani sembra però rimettere tutto in discussione (24).
Secondo alcuni, dal momento che "la città di Piacenza ebbe una zecca sin dal sec. VIII <…> che riprese nel 1140 e lavorò sino al 1322; e poi ancora dal 1414 <...> sino al 1795 <...>; [mentre] la zecca di Lodi è silenziosa dal 1250, né farà mai più parlare di sé" (25), il da Vignate si sarebbe risolto ad utilizzare le strutture verosimilmente ancora presenti e facilmente riattabili di Piacenza, piuttosto che costruire una zecca ex nova a Lodi.
La prima obiezione, relativa all'indicazione delle città sulle quali il da Vignate esercitava la propria signoria, è senz'altro valida e da ritenere, per il momento, l'unica che abbia un certo fondamento per poter attribuire queste monete a Piacenza piuttosto che a Lodi.
La seconda, riguardante l'esistenza di una zecca piacentina ancora efficiente all'inizio del Quattrocento e il relativo corollario concernente la difficoltà di installarne una a Lodi, è opinabile. La zecca di Piacenza era stata attiva sotto il governo di Galeazzo Visconti (1313-1322), ma probabilmente per un brevissimo periodo all'inizio della signoria, forse non oltre il 1315 (26). Per il curatore del CNI, seguito in ciò da diversi autori, dopo la dominazione del da Vignate Piacenza avrebbe continuato a coniare autonomamente, senza soluzione di continuità. Le monete in questione sono attribuite al lungo periodo 1414-1500 (27), ma più verosimilmente devono datarsi a non prima dell'inizio del XVI secolo. Il loro stile è infatti molto differente rispetto alle monete del da Vignate (28) mentre, di contro, sono assai somiglianti ad esemplari recanti ad inizio legenda le chiavi de- cussate e perciò sicuramente non anteriori al 1512-1515 (29).
Se si accettano queste conclusioni, dunque, la pretesa "continuità" di utilizzo della zecca di Piacenza non ci fu e dopo cento anni dall'ultimo impiego avvenuto con Galeazzo Visconti, al tempo del da Vignate essa doveva essere in disuso. L'impli- cito presupposto che sottintende l'asserzione qui contestata è che la sede della zecca, l'edificio nel quale si realizzavano i vari passaggi produttivi (preparazione dei metalli e dei tondelli, coniazione, imbiancatura, ecc.), in età medievale fosse una struttura imponente ed inamovibile e che, per ciò, rimanesse sempre collocata nello stesso luogo all'interno del tessuto urbano. In realtà non è così.
Oggi sappiamo che spesso le zecche cambiavano sede a seconda dell'occorrenza. A Bologna, tra la fine del XII secolo e la fine del XVI secolo, la zecca cambiò di sede quasi una decina di volte. Così pure a Lucca, dove, nel Trecento, l'officina monetaria cambiò edificio almeno quattro volte. Anche a Parma, tra Due e Cinquecento, la zecca mutò di ubicazione almeno cinque volte (30).
Ciò mostra come non dovesse essere particolarmente complicato attivare una zecca di medie dimensioni. Nulla vieta dunque di ipotizzare l'apertura di un'officina a Lodi, sapendo inoltre come "nel caso di piccole zecche [potessero bastare] locali modesti e attrezzature minime" (31). Alessandro Ciseri, storico lodigiano vissuto nel XVIII secolo, affermò di avere personalmente visto monete d'argento recanti nel campo l'arma gentilizia della famiglia lodigiana dei Fissiraga. Egli attribuì tali monete ad Antonio Fissiraga, dominus di Lodi a cavallo tra XIII e XIV secolo, fino al 1311 (32). Ad oggi non sono note monete con le caratteristiche descritte da Ciseri (33), ma se esse esistessero veramente non sarebbe possibile attribuirle ad Antonio Fissiraga per il fatto che nel periodo in cui egli visse i tempi non erano pronti per un'affermazione così manifesta di potere autonomo. Le grandi signorie che si instaurarono nel Veneto e nella Lombardia, a Verona, Milano, Mantova, ecc., dopo la morte di Federico II (1250), non emisero monete riconducibili in qualche modo a loro o alla loro autorità. Solamente dopo il primo decennio del Trecento Bonacolsi, Visconti, Scaligeri, cominciarono ad inserire nelle legende o nei campi nomi o stemmi propri (34). Mi sembrano quindi da escludere emissioni personali di quell’Antonio Fissiraga. Esse potrebbero però appartenere ad un suo discendente e omonimo: quell'Antonio II che nell'estate del 1403 fu acclamato anch'egli signore di Lodi come già il suo avo, governando la città per pochi mesi soltanto (35). Se così fosse il da Vignate non solo non avrebbe avuto bisogno di rimettere in uso la zecca di Piacenza, ma addirittura se ne sarebbe trovata una già funzionante in Lodi stessa.
Piacenza o Lodi, dunque? Se Uzzano parla di ambrosiani [che] si battono a Piagenza, Camaiani a sua volta descrive esattamente il grosso da Lodi. Come già accennato, il fatto che al nome di Giovanni da Vignate segua prima quello di Piacenza e poi quello di Lodi farebbe in effetti propendere per l'attribuzione delle monete a Piacenza. Di contro, si hanno monete sicuramente battute in città il cui nome compare però nella legenda solo in second'ordine, di seguito a quello di un centro urbano o di una contrada di maggior importanza. E il caso delle coniazioni veronesi e pavesi di Gian Galeazze Visconti e di alcune monete di Pavia di Francesco Sforza, sulle quali il principe è indicato prima di tutto con il titolo di signore, o duca nel caso dello Sforza, di Milano: comes virtutum dominus mediolani verone etct dominus mediolani papié etc sulle monete di Gian Galeazze emesse rispettivamente a Verona e a Pavia; dux mediolani papié anglerieque comes etc sopra quelle pavesi di Francesco Sforza (36). Naturale dunque che, essendo Piacenza un centro ben più importante di Lodi, il da Vignate facesse anteporre sulle sue monete il nome della prima città a quello del paese lombardo.
Anche il periodo in cui tali emissioni furono realizzate non è ben chiaro (37). Esse non possono in alcun modo essere antecedenti l'acquisto di Piacenza dall'Hostendun (inizio novembre 1410). Il 6 marzo 1413 l'imperatore Sigismondo creò Giovanni signore di Lodi, concedendogli nello stesso tempo anche lo ius cudendi (38). Se si tiene presente come il periodo che va dalla fine del 1411 ai primi mesi del 1413 fosse stato per lui particolarmente favore- vole(39), diviene probabile che la battitura cominciasse immediatamente dopo aver ricevuto la formale concessione di monetazione (40).
Il terminus post quem per l'interruzione delle coniazioni deve ritenersi la presa di Piacenza da parte di Filippo Arcelli (20 marzo 1414), poiché da quel momento il da Vignate non ne fu più padrone (41). Un termine più verosimile credo però debba considerarsi quello del 29 dicembre 1413, quando Giovanni fu creato conte. Sembra infatti ragionevole pensare che egli non avrebbe altrimenti omesso di farsi ricordare come tale sulle proprie monete(42).
Forse la quantità di moneta emessa fu più abbondante di quanto non lasci supporre il numero di esemplari oggi noto, tanto che il grosso giunse ad essere valutato sul mercato di Firenze (43). Il titolo di 526 millesimi del grosso, leggermente più alto rispetto ai coevi pegioni milanesi (cfr. infra, nel testo), può averne causato l'uscita dal circuito monetario e la successiva rifusione.
(18) TRAVAINI 2003, p. 189.
(19) Signore di Lodi tra il 1403 ed il 1416 e anche di Piacenza dal 1410 alla fine del 1413. Per le vicende di Giovanni da Vignate si veda soprattutto PEVIANI 1986 e in secondo luogo SAMARATI 1990, p. 235 e segg. e ID. 1958, p. 173 e segg.
(20) CNI IX, p. 564, nn. 1-5, tav. XXXVII, n. 7. Per una discussione sullo stemma di Giovanni da Vignate o Vignati, si veda PEVIANI 1986, p. 111.
(21) Come già aveva pensato il CASTELLANI 1925, p. 293, nn. 9031-9032. AGNELLI 1904 le crede essere una "p" ed una "d" (per Placentie Dominio); FALCONI 1920, p. 39 le de- scrive come "v" e "g" e anche come "g" e "v". Secondo altri si tratterebbe invece di una "y" ed una "v", iniziali di "Yohannes" e di "Vignate" (CREMASCOLi 1954a, pp. 80-81; CROCICCHIO, FUSCONI, MARCHI 1992, p.42; FUSCONI, CROCICCHIO 2005, passim). Cfr. CNI IX, pp. 564- 565, nn. 6-9, tav. XXXVII, n. 8 (denaro). E identificata correttamente come terlina in CRO- CICCHIO, FUSCONI,- MARCHI 1992, p. 25.
(22) Così già in POGGIALI 1758, pp. 172-173, tav. 1, nn. VII e Vili e In. 1759, p. 119. Solamente CREMASCOLI l-95.4a e Io. 1954b ha avanzato dubbi sull’attribuzione della moneta in questione alla zecca di Piacenza, ma senza tuttavia prendere una posizione netta al riguardo.
(23) TRAVAIM 2003, p. 173 e segg., in particolare p. 181. Quantunque Lizzano componesse il suo testo nel 1442 utilizzando opere a lui precedenti, il cenno in questione non è pre- sente in nessuno degli autori da cui egli attinse informazioni per l'elaborazione del proprio lavoro. Tale riferimento era già stato notato da CROCICCHIO, FUSCONI, MARCHI 1992, p. 11 e più recentemente ripreso in FUSCONI, CROCICCHIO 2005, p. 43. Questi studiosi ritengono che Lizzano si riferisca a monete circolanti nel capoluogo toscano al momento della stesura del suo testo (1442), ma è probabile che il saggio fatto a Firenze sulle monete argentee fosse stato effettuato nel 1425, contemporaneamente cioè a quello delle monete d'oro (Tare di fiorìni fatte a dì 10 settembre 1425 in Firenze), anch'esso riportato dall'Uzzano al cap. 56 della sua pratica di mercatura (TRAVAINI 2003, p. 176 e segg.). Ciò è confermato dal fatto che le monete d'argento citate appartengono per gran parte agli ultimi decenni del Trecento e comunque non paiono superare il secondo decennio del Quattrocento. Manca, per esempio, un riferimento ai grassoni in argento da 8 soldi battuti a Venezia a partire dal 1429. Per le fonti di Uzzano si-veda Ibid,, pp. 173-174, con bibliografia ivi citata.
(24) Non mi risulta che altri abbiano notato la citazione di questo grosso contenuta nella 'lista Camaiani'.
(25) BESANA, CARETTA 1955a, p. 2. Secondo MURARI 1985, che per ultimo si è occupato della zecca di Lodi, il periodo di attività dell'officina monetaria di questa città si porrebbe tra il 1239-1240 ed il 1250 circa. Murari accetta quanto segnalato da precedenti autori riguardo al presunto ira monetandi che sarebbe stato concesso dall'imperatore Federico II ai lodigiani nel 1239, durante un suo passaggio in loco. Già nel Seicento, tuttavia, del rescritto imperiale non rimaneva traccia. Pertanto tale affermazione va presa con cautela. Inoltre, l'attuale grande rarità delle monete di Lodi potrebbe essere sintomo di una sporadicità e limitatezza delle emissioni stesse. Mi sembra dunque più plausibile una cronologia assai più breve dei 10-11 anni solitamente indicati. Gli unici dati noti riguardano alcuni esemplari del grosso rinvenuti in ripostigli (GIOVANELLI 1812; GNECCHI 1897; CIANI 1897), tutti databili a dopo il 1254- 1256 per la presenza in essi di esemplari riferibili al concordato monetario del 1254 (per il concordato monetario del 1254, LORENZELLI 1987, con alcune precisazioni in BAZZINI 2002). Ciò farebbe pensare a coniazioni avvenute in un momento vicino a tale data, forse tra il 1250 ed il 1256.
(26) Come supposto da PALLASTRELLI 1874, p. 256. L'unica citazione nota della moneta piacentina di Galeazze Visconti è del 1315 e riguarda imperiali <...> di Piacenza dal valore di soldi 1 (cfr. Ibid., p. 254; MOTTA 1893, pp. 194-195, doc. n.3).
(27) Periodo di pressoché assoluta subordinazione politica a Visconti e Sforza prima e a Luigi XII di Francia poi. Per un quadro storico si veda CASTIGNOLI et al. 1997, passim. Si tratta delle monete catalogate nel CNI IX, pp. 564-565, autonomia. (1414-1500?), nn. 1-6: grassetti con al diritto la scritta placentia augusta e stemma cittadino nel campo; mentre al rovescio vi è la legenda nostra redemptio accompagnata al centro da una grossa croce fogliata.
(28) Basti pensare all'utilizzo dì lettere gotiche sulle monete del da Vignate e di caratteri capitali in quelle cosiddette "autonome". Nel ducato di Milano legende a caratteri romani ricompariranno sulle monete a partire dagli anni settanta-ottanta del Quattrocento, imponendosi poi negli ultimi decenni del secolo.
(29) Cfr. CNI IX, p. 566, dominio papale (1503-1513), nn. 1-5, ritenuti essere terzi di giulio. La data del 1503 come inizio della dominazione papale su Piacenza è priva di alcun fondamento poiché l'atto di dedizione al papa Giulio II porta la data del 24 giugno 1512 (cfr. ANDREOZZI 1997, p. 173, con bibliografia precedente). Un precedente tentativo di "reggimento popolare", oltre a quello di pochi mesi seguito alla morte di Filippo Maria Visconti (+ agosto 1447), ci fu tra il gennaio del 1500 e il 18 marzo dello stesso anno, ma per quanto accadde in questo brevissimo lasso di tempo è dubbio che a Piacenza si pensasse di far funzionare la zecca (Ibid,, p. 172).
(30) Per Bologna, BELLOCCHI 2001, pp. 255-258. Per Lucca, VANNI 2001, pp.219-234. Per Parma, BAZZINI c.s.
(31) TRAVAINI 2001, p.79; anche per tutta la problematica riguardante le sedi di zecca nel medioevo italiano.
(32) CISERI 1732, p. 214, riportato da BESANA, CARETTA 1955b, p.49, i quali propongono una ricostruzione della moneta rifacendosi a quanto descritto dal Ciseri stesso. L'arma gentilizia dei Fissiraga era d'azzurro a tre bande d'argento arcuate, col capo d'Angiò. Per notizie su Antonio Fissiraga si veda GROSSI 1985.
(33) Quanto scritto dal Ciseri può forse essere stato dettato da una certa piaggeria nei confronti degli ultimi discendenti del nobile lodigiano Si veda, per esempio, ciò che scrive RIZZOLI 1908 su un presunto privilegio di monetazione ottenuto dalla famiglia padovana dei Basilii e ricordato in una cronaca manoscritta del XV secolo. 'BESANA, CARETTA 1955b, p. 49, ritengono comunque la notizia del Ciseri "non sospetta". Ancora in uno studio recente il CARETTA 1983, p. 98, parla di "brevi emissioni di Antonio Fissiraga".
(34) I primi Scaligeri che governarono Verona non posero mai sulle monete simboli o insegne che potessero far risalire apertamente a loro. Solamente al tempo di Cangrande (signore dal 1311 al 1329) si ebbero emissioni di grossi sui quali compariva il simbolo della scala (SACCOCCI 1995, passim; Io. 1988, passim). A Milano le famiglie (della Torre e Visconti) che si succedettero al potere dopo il 1250 non batterono monete riconducibili a loro in modo esplicito prima delle emissioni di Azzone Visconti (signore tra il 1330 ed il 1339). I Bonacolsi,
signori di Mantova, emisero il grosso tirolino con il loro stemma nella legenda non prima del
1311, sebbene fossero padroni della città già dagli ultimi decenni del Duecento (Io. 1996, pp. 153-154).
(35) Per le vicende storielle di questo periodo si veda PEVIANI 1986, pp. 45-48; SAMARATI 1990, p. 235. È proprio a partire dall'inizio del Quattrocento che si consolida, da parte di chi detiene il potere in una città, la prassi di battere moneta a proprio nome, a volte senza possederne i requisiti giuridici per farlo. Nella sola Lombardia emettono moneta, pur non avendo ricevuto alcuna precisa concessione in proposito, i signori di Brescia (Pandolfo Malatesta, signore tra il 1404 ed il 1421), Crema (Giorgio Benzoni, signore tra il 1405 ed il 1414), Como (Franchino II Rusca, signore tra il 1408 ed il 1412), Cremona (Cabrino Fondulo, signore tra il 1413 ed il 1420), Monza (Estere Visconti, signore tra il 1407 ed il 1412) e quasi certamente quello di Cantù (Ciampicano Visconti, signore tra il 1407 ed il 1412). A Brescia, Corno e Cremona una zecca era sì esistita in precedenza, ma all'inizio del Quattrocento risultava essere inoperante oramai da molti decenni. In tutti gli altri casi si trattò di costituirla ed attivarla di sana pianta. Alcuni dei personaggi qui citati possedevano il titolo di vicari imperiali e non si può dunque escludere che si sentissero autorizzati a battere moneta a loro nome pur non avendo ricevuto in tal senso alcuna esplicita autorizzazione. Si tratterebbe comunque, io credo, sempre dell’usurpazione di un diritto che, almeno teoricamente, spettava ancora all'im- peratore. A questo proposito cfr. quanto rilevato da PALLASTRELLI 1874, pp. 248-249, con bibliografia precedente.
(36) Si sa, essendosi conservata documentazione in proposito, che al tempo di Gian Galeazze Visconti le zecche di Verona e Pavia furono sicuramente attive e che quest'ultima coniò moneta anche per Francesco Sforza (cfr. BRAMBILLA 1883, passim). A parte alcuni nominali, la cui attribuzione alle città sopraccennate piuttosto che alla zecca milanese è discutibile, per quelli recanti l'immagine dei santi Zeno (per Verona) e Siro (per Pavia) non ci dovrebbero essere dubbi riguardo alla loro assegnazione.
(37) Secondo AGNELLI 1904, p. 43, "la moneta fu coniata nello spazio di tempo trascorso dal 6 marzo 1413, giorno in cui Giovanni da Vignate ebbe facoltà di battere moneta dal- l'imperatore Sigismondo, al 21 marzo 1414, giorno in cui perdette la signoria di Piacenza"; mentre FALCONI 1920, p. 38, più genericamente, attribuisce tali emissioni al "breve tempo che [il da Vignate] fu signore di Piacenza". Per CREMASCOLI 1954a, p. 79 e Io. 1954b, p. 84 "in qualità di dominus di Lodi e Piacenza, il Vignati batte moneta nel periodo che va dal 1410, anno in cui acquista da Antonio di Hostendun la seconda città, e la fine del 1413, quando riceve dall'imperatore Sigismondo nel duomo di Lodi l'investitura di Conte della prima". 'Bn- SANA, CARETTA 1955a, p. 2, affermano che Giovanni "ebbe pochissimo tempo a disposizione per far battere le sue monete: 13/111/1413 - 22/1 (ammettiamo pure 21/111) 1414". Per la PEVIANI 1986, p. 95, che ritiene le monete del da Vignate coniate "assai presumibilmente a Piacenza", la data della presa di questa città da parte di Filippo Arcelli per conto del duca di Milano il 20 marzo 1414, "costituisce il termine conclusivo del periodo entro il quale il Vignati fece coniare le proprie monete" Infine, per FUSCONI, CROCICCHIO 2005, p. 43, le monete furono emesse "verosimilmente nel breve periodo compreso fra la conferma da parte dell'imperatore Sigismondo dei privilegi concessi da Federico Barbarossa (ivi compreso il diritto di battere moneta) (6 marzo 1413) e la consegna della città all'imperatore in occasione della sua venuta in Italia (ultimi mesi del 1413)".
(38) Diploma in AGNELLI 1891, pp. 77-82.
(39) Egli disponeva in quel momento di ampie risorse finanziarie e aveva concluso tregue con alcune potenti famiglie del piacentino. Il 16 settembre 1412 aveva invece stipulato con Filippo Maria Visconti un trattato di unione della durata di 18 mesi (cfr. PEVLANI 1986, pp. 75-80).
(40) Così come ipotizzato da BESANA, CARETTA 1955a, p. 2.
(41) Anche se nessuno avrebbe comunque potuto impedirgli di considerarsi, almeno in teoria, come il vero signore della città, giudicando l'intervento dell'Arcelli un'usurpazione. I Visconti, nonostante avessero perso Verona nel 1405, continuarono per diversi anni a fregiar- si, nei documenti, del titolo di signori di questa città (cfr. DIONISI 1786, p. 329).
(42) Come già CREMASCOLI 1954a, p. 79 e Io. 1954b, p. 84.
(43) Si veda a questo proposito quanto rilevato da FUSCONI, CROCICCHIO 2005, pp. 45-